Azzurri di Gloria ha avuto il piacere di intervistare Alessandro Ballan, ex ciclista e campione del mondo a Varese nel 2008.

Alessandro Ballan con la maglia iridata (fonte sport.leonardo.it)

ALESSANDRO BALLAN SI RACCONTA AD AZZURRI DI GLORIA

<<I corridori sono in Piazza Monte Grappa, a meno di 3 chilometri dal traguardo. Ballan! Questo è l’attacco buono!>>. Auro Bulbarelli e Davide Cassani non riescono a contenersi mentre il corridore azzurro si invola con un’accelerazione devastante verso la vittoria al Campionato del Mondo di Varese nel 2008. La marcia di Alessandro Ballan, nato a Castelfranco Veneto il 6 novembre 1979, diventa inarrestabile e porta dritta al successo ed alla conquista di una maglia iridata divenuta in seguito stregata per la Nazionale italiana delle due ruote. Certamente, non è casuale che sia riuscito a salire sull’Olimpo lui, corridore generoso, veloce e duttile in strada, persona gentile, garbata ed affabile una volta sceso dalla sella. La carriera di Alessandro è stata ricca di soddisfazioni, come testimoniato dalle vittorie in giro per il mondo e dall’acuto al Giro delle Fiandre nel 2007, l’altra grande impresa della sua vita ciclistica. E questi acuti sono arrivati tutti grazie ad una grande cultura del lavoro, ad una grande dedizione e ad un talento forse troppo spesso sottovalutato. Oggi, Ballan segue il mondo delle corse da spettatore, dopo il ritiro annunciato due anni fa. Ad Azzurri di Gloria, l’ex campione del mondo ha raccontato le sue impressioni sulla rassegna di Bergen e sul movimento azzurro.

Alessandro, partiamo dando un giudizio sul Mondiale dell’Italia di Davide Cassani. Da ex campione del mondo, credi che si potesse fare qualcosa in più o assolvi il CT da tutte le critiche che gli sono piovute addosso ultimamente?

<<Mettendomi nei panni di Davide, non c’erano altre alternative. L’unica cosa rivedibile è la tattica di squadra: a mio giudizio era fatta per andare a medaglia più che per vincere. Ci sono quasi riusciti, nulla da ridire. Si ragiona sempre dopo. Personalmente, io credo che, per provare a vincere la corsa, sullo scatto di Alaphilippe, oltre a Moscon, doveva esserci a ruota anche Trentin. Gianni doveva sacrificarsi, facendo il ritmo ed aiutando anche il capitano. Lì ci si giocava tutto, sapendo peraltro che Viviani non stava bene. Correre con Trentin voleva dire gareggiare per accontentarsi di una medaglia. Non aveva uno spunto sufficientemente veloce per conquistare la vittoria>>.

Comunque, in generale, possiamo dire che la posizione di Cassani è assolutamente salda. Alla fine, i risultati non sono arrivati più per sfortuna che per demeriti.

<<Direi di sì. In fondo, negli ultimi anni non abbiamo avuto dei grandi corridori. Lo stesso può confermarlo anche Paolo Bettini. Purtroppo all’Italia mancano gli uomini da classiche. In questi anni c’è stata una ripresa dopo un periodo negativo. E poi a volte influiscono altri fattori. Davide è stato sfortunato in alcune circostanze, come ad esempio a Rio 2016. Senza la caduta di Nibali all’ultimo giro, l’Italia avrebbe conquistato una medaglia e, forse, vinto la gara olimpica. Quest’anno non si è corso male in generale. Ripeto: tatticamente non c’erano tante altre alternative. Si poteva eventualmente impostare la squadra  solo su un corridore, ma sarebbe stata una strategia molto rischiosa, da tutto o niente>>.

Lei ha toccato un tema molto interessante: come mai questo “buco” generazionale degli azzurri specialisti delle classiche? Peraltro Lei è stato l’ultimo italiano a vincere un Mondiale ed una classica monumento del Nord…

<<Facciamo una doverosa premessa. Penso sempre che, quando sono diventato pro nel 2004, l’Italia era una nazione traino. C’erano numerose squadre World Tour come la Saeco, la Lampre, la Domina Vacanze, la Liquigas. Il ciclismo era un vivaio di corridori italiani. Prima eravamo tra le prime nazioni in questo sport. Con la crisi sono spariti gli sponsor e la situazione è cambiata drasticamente, al punto che ora non abbiamo alcuna formazione World Tour. Aggiungiamo che le nostre squadre professional sono poco realizzate, non hanno un budget sufficiente per far crescere giovani talenti. L’Italia sta passando brutto momento dal punto di vista economico, ci sono pochi soldi e le aziende non investono sul ciclismo. Questo influisce anche sul calendario, dato che alcune gare organizzate nel nostro Paese sono sparite. Purtroppo, è un effetto dell’andamento dell’economia. Un altro esempio è il campionato italiano: prima, gli iscritti erano 200, ora si è in 80. Il World Tour ha portato l’internazionalità, facendo entrare anche Inghilterra e paesi arabi. Abbiamo pagato questi ingressi e questi cambiamenti. Comunque, mi sembra che la situazione stia migliorando: abbiamo giovani come Moscon e Bettiol, dotati di  qualità e grandi doti. Dobbiamo solamente aspettare la loro crescita>>.

Certamente i giovani talenti non ci mancano. Mi soffermo su Gianni Moscon: ha dimostrato di saper tenere molto bene su ogni terreno ed è uno dei pochi a guidare molto bene sul pavé. Potrebbe vincere la Parigi-Roubaix in futuro?

<<Non solo la Roubaix, ma anche il Fiandre e la Liegi-Bastogne-Liegi. Non solo va forte sul pavé, ma sa anche tenere la distanza. Non è così scontato. A molti corridori si spegne la lampadina quando il chilometraggio è impegnativo. Io ero uno che sulle gare lunghe che dava il meglio di sé. Non calavo mai. Sembrava che nel finale andassi più forte, ma in realtà ero bravo a mantenere sempre lo stesso ritmo. Non è semplice. Solamente alcuni corridori sono capaci di adattarsi a questo tipo di competizioni>>.

A proposito di classiche: si parla di un Vincenzo Nibali intenzionato a dirottare il suo 2018 principalmente sulle corse in linea di un giorno con l’obiettivo di preparare al meglio il Mondiale di Innsbruck. Secondo Lei, lo Squalo potrebbe avere un futuro da cacciatore di classiche monumento?

<<Credo sia la scelta giusta. Vincenzo inizia ad avere un’età avanzata. Essere concentrati su un Grande Giro è complicato, specialmente ad una certa età. È sempre più difficile con il passare del tempo, l’ho sperimentato anch’io. La decisione di abbandonarli o farli con meno pressione per vincere e migliorare le classiche è una scelta azzeccata. Del resto, lui ha già vinto i Grandi Giri, non ha più nulla da dimostrare. Così potrebbe approfittarne per migliorare ulteriormente il suo palmares, magari con una maglia iridata>>.

A proposito di iride, facciamo un passo indietro. Cosa si ricorda di Varese 2008?

<<Ricordo tutto. Ho avuto la fortuna di rivedere il video a più riprese. Sono bei ricordi che porterò sempre con me. C’è un aspetto curioso del Mondiale 2008: non mi ricordo niente di quello che è accaduto dopo l’arrivo. Vedo foto con lacrime o mentre canto l’inno nazionale, ma non mi viene in mente nulla di tutto ciò. Ero in uno stato di trance tale da essere totalmente assorto dai miei pensieri e da non fare caso al resto>>.

Lei è diventato famoso per la “fucilata” di Varese, come ripeteva nella sua telecronaca Auro Bulbarelli. È stata un’azione studiata a tavolino o figlia esclusivamente dell’istinto?

<<Ballerini e Martini nelle tattiche si pianificava una tappa per Bettini. Era la sua ultima corsa. Non c’è mai stato un piano B. Tuttavia, in più occasioni Franco mi ha preso in disparte e mi ha ripetuto per tre volte: “Ale ricordati che il rettilineo dal centro all’ippodromo è in salita ed è fatto per te. Se parti lì non ti prende nessuno”. Ascoltando quelle parole, ho iniziato a crederci. L’ho pianificato dentro di me. Tutto è andato per il verso giusto ed io ho ripensato alla frase di Ballerini. Intanto, Bettini è stato bravo a mettere tutto il resto del gruppo nel sacco, permettendo alla nostra fuga di guadagnare terreno. A 7km ci siamo parlati io e Davide Rebellin. Era chiaro che il campionato ce lo saremmo giocato noi fuggitivi. Per vincere dovevamo arrivare da soli. Non ho parlato direttamente con Damiano Cunego, ma credo sia stato messo al corrente della nostra idea da Ballerini. Infatti, anche lui si è messo a scattare nel finale. A turno, lui, Rebellin ed io ci siamo mossi continuamente. Alla fine, l’attacco buono è stato il mio. Sono stato bravo ed anche fortunato. Abbiamo fatto un ottimo lavoro di squadra>>.

Possiamo affermare che ormai nella storia del ciclismo italiano ci sono due “fucilate” eccellenti: la Sua a Varese e quella di Goodwood, realizzata da Beppe Saronni, Suo manager ai tempi della Lampre. Avete mai parlato di questa somiglianza singolare.

<<L’ho conosciuto da atleta e la prima volta che ho fatto il primo contratto da professionista. Ho avuto la fortuna di lavorare con lui per 7 stagioni. Diciamo che l’ho emulato con questo attacco. Comunque ci sono alcune differenze. Lui è partito più secco ed era all’interno dell’ultimo chilometro. Io sono partito più lontano, ma ero consapevole di avere il ritmo giusto per arrivare fino in fondo. Diciamo che tutti e due sono rimasti impressi nella memoria del pubblico italiano. Io sono stato molto fortunato per come è stato ripreso. Se in quel momento la telecamera non fosse stata sull’elicottero e fosse stata centrale o rivolta sul gruppo di Bettini, non avrebbero visto quell’azione. E poi c’è l’esultanza dei telecronisti: ricordo le telecronache di Bulbarelli e Cassani in Rai e Magrini su Eurosport, sottolineavano che era uno scatto buono, con cui potevo arrivare da solo fino al traguardo>>.

Come si sente un ciclista in maglia iridata?

<<È bello perché sei sempre sotto i riflettori, qualsiasi cosa fai anche nel gruppo acquista un altro risalto. Tutti i colleghi sono rispettosi. Addirittura, a volte, si crea un vuoto. La gente non ti sta attaccata. Questo ti fa capire quanto bello sia essere campione del mondo. Inoltre sei sempre ricercato per foto ed autografi. E poi, in alcune gare, è bello indossare il dorsale numero 1>>.

In BMC, hai corso insieme ad altri tre campioni del mondo: Cadel Evans, vincitore nel 2009, Thor Hushovd, iridato nel 2010, e Philippe Gilbert, mattatore nel 2012. Com’è stato convivere in un team dotato di tre punte di questo livello?

<<Non è facile andare d’accordo quattro galli in un pollaio. Comunque, tra di noi c’è sempre stata grande armonia. Dev’essere così per il bene della squadra, anche se si era quattro campioni del mondo. Se uno dei quattro aveva più condizione, ci si metteva a disposizione. Certo, poteva succedere che altri non sempre tirassero per non farti un piacere>>.

Dopo la vittoria a Varese nel 2008, quali erano le Sue aspettative sulla stagione successiva?

<<Sono partito con tanta felicità e tanta voglia di fare bene. Purtroppo l’inverno è stato difficile per via dei diversi impegni. Comunque, ero riuscito ad allenarmi bene. Ho fatto terzo al Giro di Sardegna. Ero contento della mia condizione. Poi è arrivato il virus… quando sei sempre a tutta può subentrare un problema fisico approfittando di gare, allenamenti e stress. Aggiungiamoci anche il mio carattere. Cercavo di accontentare tutti e di essere sempre disponibile. Non mi sono reso conto che era sbagliato per la mia vita da atleta. Dapprima mi sono fermato e poi quel virus mi ha fatto pagare un prezzo molto alto. Del resto, erano altri tempi, non c’erano gli agenti addetti al controllo degli eventi. Non c’era ancora questa mentalità. Io, con il mio carattere e l’incapacità di dire di no, ho contribuito. È una lezione che ho imparato dopo. Il corridore deve sempre pensare alla bici e capire se le cose che fa possono servire e vanno bene alla sua attività. Tutti vorrebbero avere il campione del mondo, ma è giusto che lui abbia del tempo per sé>>.

Lei è l’ultimo italiano ad aver vinto il Mondiale e l’ultimo ad aver conquistato il Giro delle Fiandre. Ci sono analogie tra i due successi?

<<Ricordo tutto benissimo della vittoria al Fiandre. Ricordo la volata al cardiopalma, frutto di un attacco sul Grammont. Diciamo che, facendo un confronto con il Mondiale, sono due azioni simili nella parte iniziale. Colloco allo stesso livello Fiandre e Mondiale. Certamente, vestire la maglia del campione del mondo è qualcosa di unico>>.

Ultima domanda: ha qualche rimpianto riguardante l’andamento della Sua carriera?

<<Non ho rimpianti, ma la mia carriera è stata molto condizionata dalla vicenda doping. Si è conclusa con l’assoluzione, ma dopo 6 anni. Il fatto risaliva al 2009 e la completa assoluzione è avvenuta solamente nel 2015. Mi ha danneggiato molto. Non è facile fare il corridore con la testa da un’altra parte. Certo, negli ultimi anni ho fatto anche terzo alla Roubaix ed al Fiandre, ma non ero più il Ballan del 2007. Nascondevo i problemi, facevo il possibile, ma non salivo serenamente in bici. Resta quel rammarico, di essere incappato in qualcosa di grande, senza trovare la strada per uscirne. Inoltre, nel 2012 sono incappato in un incidente in cui ho rischiato la vita. Non sarebbe accaduto se avessi avuto la testa sgombra. Sicuramente questi problemi mi hanno fatto smettere. Comunque, cerco di guardare i lati positivi. Mi ha fatto piacere ricevere molto affetto dalla gente ancora adesso, cose che magari altre persone non hanno ricevuto. Sono riuscito comunque a superare un momento difficile. Il supporto delle gente è stato molto importante>>.

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Federico Mariani
Nato a Cremona il 31 maggio 1992, laureato in Lettere Moderne, presso l'Università di Pavia. Tra le mie passioni, ci sono sport e scrittura. Seguo in particolare ciclismo e pallavolo.

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