Ferdinando Acerbi è uno dei simboli più belli del sogno a cinque cerchi, più volte cercato quando era membro della team azzurro di equitazione e realizzato quest’anno alle Paralimpiadi di Rio 2016. “Ferdi” è tornato in sella dopo un incidente subacqueo, convinto da un gruppo di amici a dare una seconda chance al suo primo amore, i cavalli. E lui ha letteralmente ripreso in mano le redini della sua vita quando con Quasimodo di San Patrignano è sceso sul campo di gara di Rio. Lo abbiamo incontrato allo Smau di Milano dove Acerbi ci ha parlato della piattaforma “Atleti Speciali”, ma anche della sua esperienza  in Brasile e dei progetti futuri, nella lista delle cose da fare una medaglia a Tokyo2020.

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 Ci puoi parlare di Atleti Speciali e di cosa si tratta?

“E’ una piattaforma tecnologica che ci permette di dare una nuova immagine al movimento paralimpico e una serie di servizi agli attori che ne fanno parte, quindi non solo atleti, ma anche famiglie e associazioni coinvolte. Presto sarà online il motore di ricerca che abbiamo sviluppato e riuscirà a recuperare sul territorio italiano tutte le strutture  che si occupano di sport paralimpico. Per esempio, io sono un ragazzo di Piacenza, ho un tipo di disabilità e grazie al motore di ricerca potrò trovare la struttura adatta a quelle che sono le mie esigenze in un determinato raggio d’azione. Al momento invece sono già presenti le biografie di tutti gli atleti che hanno partecipato alle paralimpiadi, una decina di blog degli atleti che scrivono più o meno settimanalmente, la spiegazione di cosa siamo e cosa facciamo e la possibilità di partecipare a campagne di crowdfunding o per sostenere un singolo atleta o eventi e manifestazioni sul territorio”.

Durante la tua presentazione hai parlato dell’importanza di trovare potenziali atleti prima che escano dalle strutture

“È importante perché diciamolo, stare in un struttura ospedaliera non piace a nessuno. Starci 6 mesi sapendo che la tua vita dovrà cambiare in qualche maniera, senza l’appoggio di qualcuno che ti faccia capire quanto è vasto il mondo una volta fuori è difficile, perché poi una volta che esci tendi a chiuderti in casa e riprodurre quello che facevi lì dentro. In questo modo diventa più difficile riavvicinarsi al mondo. Ci sono invece molte persone che potrebbero essere degli ottimi mentori per chi si trova ad affrontare questa situazione. Avvicinarli con dei messaggi positivi, dinamici e di non chiusura direttamente all’interno di varie strutture di unità spinale sarebbe molto importante”.

 Tu invece hai dovuto fare tutto da solo…

“Io sono un tipo strano. Ho un vissuto molto particolare che è a 360 gradi all’interno di un’attività sportiva. Se non avessi avuto la mia educazione sportiva quei pochi passi che riesco a fare senza la carrozzina non li farei oggi, perché lo sport ti educa tanto al sacrificio e alla ripetizione. Vedere uno sportivo che fa una performance in televisione è una figata, ma dietro è tutta noia, perché tu ripeti migliaia, milioni di volte lo stesso esercizio e la maggior parte delle volte magari dovendo ascoltare qualcuno che sai che non lo sa fare, ma ti dice come farlo. In questo senso è la condizione ideale per un processo di rieducazione, avevo quindi un background che mi ha aiutato a percorrere questa strada. E’ sempre l’obiettivo la cosa importante, io sono stato abituato fin da piccolo a stabilire dei target per obiettivo e questo mi ha aiutato molto. E questo concetto penso sia importantissimo da spiegare nelle scuole ai ragazzi, ai giovani, perché il metodo è quello che ti salva sempre. Oggi penso ci sia un po’ di carenza da questo punto di vista, quindi perché non avere un modello positivo, allegro e di successo che ti sproni?”

 L’immagine che è arrivata guardando le paralimpiadi e le vostre interviste era quella di un gruppo molto unito, dove tutti vi sostenevate a vicenda

“Ho avuto la possibilità di frequentare entrambi i filoni, quello dello sport normodotato e quello dello sport paralimpico e devo dire che all’interno del movimento paralimpico c’è uno spirito del tutto diverso. Siamo più consapevoli del fatto che da soli non ci si arriva e che per avere voce in capitolo dobbiamo essere uniti. Per noi poi far sport è gioia, libertà e fatica e siamo contenti e orgogliosi di quello che facciamo e ci piace farlo insieme. Già essere su un campo di gara con le difficoltà che ci contraddistinguono è un successo, se poi qualcuno vince meglio”.

 Quali sono state invece le tue sensazioni quando sei entrato sul campo di gara?

“Devo dire che questa volta me la sono proprio goduta. E’ una cosa a cui tenevo molto, ora sono più maturo rispetto a 20 anni e me la sono goduta sorso per sorso. E’ stato bello, emozionante e per certi versi riappacificante con alcune cose mie personali”.

 La tua esperienza a Rio l’hai condivisa anche con qualcun altro, con cui hai fatto un vero e proprio lavoro di squadra, il tuo cavallo Quasimodo

“Il rapporto con un cavallo in gara e a questi livelli è molto particolare, devi instaurare una collaborazione già nella norma, figurati nella “non” norma. Quando parlavo di stress in gara anche il cavallo lo sente, anche lui si rende perfettamente conto se chi ha in sella è più o meno dotato. Se però con dote intendiamo solo essere capaci allora il cavallo ti frulla, se invece è fisico allora si stressa molto, perché evita certi comportamenti e si chiude. Ci vuole molta mediazione, capire quando si può chiedere qualcosa in più e quando invece è il caso di aspettare e lui di conseguenza deve fare lo stesso con te, capire se anche lui quel giorno si può permettere di fare un po’ di più oppure no. E’ difficile, ma anche molto appassionante. Io ho imparato di nuovo quanto è impegnativo andare a cavallo e quanto è difficile fare perfettamente una cosa semplice. Come ero abituato io, o in generale chiunque, sai che hai dei punti di forza quindi pensi se perdo qualche punto da una parte poi lo posso recuperare dall’altra, qui invece no. Qui hai solo una cosa da fare e la devi fare al meglio. Da un punto di vista è affascinante anche la ricerca che sta dietro per capire come potresti fare meglio, è un approccio diverso, forse più mentale che fisico e ci vuole uno sforzo anche di creatività per capire come raggiungere quel piccolo miglioramento in più che ti porta a vincere una medaglia”.

 Prima dell’inizio delle Olimpiadi hanno fatto molto parlare l’organizzazione dei giochi e i lavori in ritardo del villaggio olimpico, voi atleti come vi siete trovati invece?

“Rio in generale è stato bellissimo. Hanno fatto un lavoro incredibile sulla città e sull’accessibilità. Non c’era un autobus o un taxi che non caricasse carrozzine, quando poi ti spostavi con le biciclette da corsa avevi sempre la persona che passava a prenderti. Sono stati davvero stupendi. Per dire sul lungomare di Copacabana che saranno 20km c’erano bagni ogni 100 metri accessibili. Parlando del villaggio olimpico come sempre è la solita speculazione edilizia, non era bello, a tratti cadente, mezzo fatto mezzo no, ma i trasporti al contrario erano perfetti. Ogni giorno si dovevano spostare in media 5000 persone ai vari campi gara che distavano circa 40 minuti e ogni mezz’ora noi avevamo gli autobus che partivano e portavano gli atleti avanti e indietro. Nella difficoltà sono stati veramente grandi. Poi ripeto per noi è stato fantastico essere là, superiamo difficoltà tutti giorni, figurati se non lo facciamo quando siamo alle Olimpiadi”.

 Poco tempo fa durante un evento Bebe Vio ha detto che da grande vorrebbe diventare il presidente di un nuovo comitato, a metà tra il Coni e il Cip, cosa ne pensi, è possibile?

“E’ una cosa bellissima, ma c’è già. Vuol dire che Bebe vuole fare lo Sport. Poi io sono il primo a dire che un’Olimpiade unica sarebbe una cosa stupenda, ma anche che è quasi un’operazione impossibile. Immaginiamo un villaggio olimpico di persone normodotate, saranno non so circa 5000, poi si aggiungono i tecnici. Ora per quanto riguarda gli atleti paralimpici le persone di supporto diventano almeno due ad atleta. Di conseguenza si dovrebbe fare un villaggio che contenga oltre 15mila persone con esigenze completamente diverse, passando poi alle gare quelle unificate sarebbero veramente poche e anche mediaticamente diventerebbe una palla mostruosa. Immagina solo una giornata dove si corrono tutti i 100 metri dalla mattina alla sera con tutte le diverse categorie, a parte la noia anche dal punto di vista logistico è impossibile. Quello che sarebbe bello fare, come ha già fatto Bebe, sarebbe creare degli eventi studiati apposta e approvati dove si possono fare una serie di attività in cui l’atleta normodotato si confronta con l’atleta paralimpico. Sono esercizi che abituano all’integrazione e che aiutano a far capire che tutti facciamo sport, ma sono eventi spot che sono gestibili. Un’intera olimpiade sarebbe proprio difficile da gestire”.

 Parlando ora del tuo futuro si guarda a Tokyo2020?

“Ci sto lavorando, con l’intenzione di fare qualcosa che mi permetta di arrivare nella condizione di poter vincere una medaglia. Mi sento in gradi di farlo, mi piacerebbe e tecnicamente posso farcela. Mi hanno fatto assaggiare il “biscotto” delle Olimpiadi e fatto vedere le medaglie e ora le voglio”.

 Roma 2024 è un’opportunità mancata?

“Penso che ospitare un evento di questo tipo sia un po’ come avere un figlio, non sei mai pronto, devi decidere e farlo, perché se aspetti e ci pensi troppo non lo fai. Avendo vissuto Rio come città penso che Roma abbia perso una grande occasione per essere una delle prime città d’arte e di storia accessibile, con la forza mediatica ed economica che oggi il movimento paralimpico può portare è stato un peccato sprecare l’opportunità di diventare davvero un fiore all’occhiello in Europa. Non solo per quello che rappresenta Roma, ma potrebbe rappresentare se fosse accessibile, per questo penso sia stata un’occasione perduta. Poi non ho le competenze per parlare dell’aspetto economico, ma forse se i soldi delle grandi opere come il famoso ponte di Messina, fossero stati indirizzati in altra maniera le Olimpiadi si sarebbero potute fare. Pochi giorni fa ero in Regione Lombardia con Maroni che ha promesso un Milano 2028, speriamo si possa fare e avere anche un ruolo più attivo”.

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Giulia Cannarella
Giornalista pubblicista, collaboratrice per Runner's World Italia. In precedenza redattrice per Agr-agenzia giornalistica radiotelevisiva e collaboratrice per la Gazzetta dello Sport inserto Milano-Lombardia

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