Stando alle indiscrezioni pubblicate dal NY Times, la Russia verrà assolta dall’accusa di doping di stato per ”assenza di prove”. È la morte dello sport?

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L’ANTEFATTO: LA RUSSIA E IL DOPING DI STATO SVELATO DAL RAPPORTO MCLAREN

Un’autentica bomba a orologeria, scoppiata verso la fine del 2015 e deflagrata con tutte le conseguenze del caso a pochi mesi dai Giochi di Rio 2016: il rapporto McLaren, stilato dall’investigatore assoldato dalla WADA per indagare sulle (sino ad allora) presunte violazioni al regolamento antidoping della Russia, aveva aperto il vaso di Pandora e svelato un autentico sistema volto a costituire un illegale e drammatico doping di stato. Qualcosa di simile alla Germania dell’Est degli anni ’80, per intenderci, un sistema studiato negli anni e perfezionato fino a diventare perfetto in vista delle Olimpiadi invernali di Sochi 2014, nelle quali la Russia fece improvvisamente incetta di medaglie a livello olimpico (33, 13 d’oro) e soprattutto paralimpico (80, 30 d’oro): gli atleti coinvolti dal rapporto McLaren erano tantissimi, la maggior parte nell’atletica, con 96 casi particolarmente spinosi e circa mille posizioni da analizzare, e le accuse gravi. Il tutto era nato dalle rivelazioni della mezzofondista Stepanova, corroborate poi dalla testimonianza da ”pentito” di Grigoriy Rodchenkov, direttore del laboratorio antidoping russo che è stato in seguito costretto al trasferimento da rifugiato negli USA perchè temeva per la sua vita: oltre ai numerosi casi di distruzione di provette di atleti ”potenzialmente positivi”, Rodchenkov aveva svelato qualcosa di clamoroso, poi verificato dagli investigatori americani.

A Sochi, esattamente di fianco al laboratorio ”ufficiale” delle Olimpiadi invernali, era stato scoperto qualcosa che sino ad allora veniva ipotizzato solo nei romanzi di spionaggio: un autentico laboratorio-ombra, collegato all’altro attraverso un buco nel muro che consentiva agli scienziati russi e agli agenti del KGB (incaricati dal Ministero dello Sport di ”vigilare” sul doping) di risistemare, prelevare e/o distruggere le provette incriminate, azzerando così i casi di doping russo e proteggendo i propri atleti da ogni accusa. Fatti che hanno trasformato un altro creatore di un sistema di doping, Lance Armstrong, in un autentico agnellino, e scoperchiato il calderone russo: nel paese di Putin c’era un doping di stato, sul quale è stato interpellato il CIO, che come di consueto si era comportato in maniera democristiana atque ponziopilatesca, lasciando alle federazioni l’onere e l’onore di scegliere se escludere o meno gli atleti russi coinvolti nell’inchiesta di McLaren e citati nel suo rapporto. Di fatto, solo l’atletica aveva preso una decisione drastica, ammettendo solo chi si era dichiarato totalmente estraneo (la saltatrice Klishina) sotto la bandiera olimpica (un dato che si è ripetuto ai Mondiali di Londra 2017: alcuni russi hanno gareggiato sotto l’egida-IAAF), mentre molte altre discipline, su tutte la scherma (presieduta dal russo Usmanov) avevano mantenuto lo status quo, e il CIO paralimpico era stato durissimo: out tutti i russi dalle Paralimpiadi, e anche da quelle invernali di Pyeongchang 2018. Ora però, alla luce degli ultimi sviluppi, tutto potrebbe cambiare.

WADA VA VERSO L’ASSOLUZIONE DELLA RUSSIA: ”PROVE INSUFFICIENTI”, È LA MORTE DELLO SPORT?

La notizia-bomba è arrivata ieri, spinta dalle indiscrezioni del NY Times e corroborata dalla WADA stessa, che attraverso il suo dg Olivier Niggli ha dichiarato che ”non ci sono prove sufficienti per dimostrare le violazioni all’antidoping della Russia”: sembra incredibile, eppure è realtà, e stando ai rumours si va verso l’annullamento dell’accusa di doping di stato, la riabilitazione dei russi e l’assoluzione completa di 95 dei 96 atleti coinvolti nelle prime indagini (nomi secretati), che dunque tornerebbero a gareggiare tranquillamente. Resta da capire se il CIO paralimpico riammetterà o meno i russi, seguendo il passo indietro di una WADA che ha deciso di arrendersi e smontare l’impianto accusatorio costruito da McLaren: i segnali di questo dietrofront, dettato da ragioni politiche (e magari anche economiche, volendo essere maligni), erano stati dati dallo stesso investigatore, che qualche giorno fa aveva dichiarato che ”sarebbe stato difficile arrivare a delle sanzioni” per i soggetti coinvolti. Queste difficoltà nascevano sia dall’assoluta non collaborazione della Russia, che aveva distrutto ogni prova del laboratorio fantasma e ogni documento sugli atleti interessati, sia dalla non volontà di creare uno scandalo da parte della WADA, che col passare dei mesi si era tirata indietro trasformandosi pian piano nello struzzo che mette la testa sotto la sabbia: basti pensare che, in un’inchiesta che basava il 50% della sua forza sulle dichiarazioni e sulle prove portate da Rodchenkov (che aveva parlato di come il Ministero dello Sport gli avesse ordinato di sviluppare ”un cocktail di sostanza dopanti che consentisse agli atleti di non risultare positivi”, nonostante i mille anabolizzanti contenuti al suo interno, venendo miscelato con whisky e vermouth: 1mg di steroidi ogni ml di alcol), il diretto interessato non è mai stato interrogato, nonostante si trovi negli USA e si fosse dichiarato disponibile a collaborare al 200%.

E così, uno dei più grandi casi di (possibile, quand’anche comprovato) doping di stato finirà in un’enorme bolla di sapone, dimostrando per l’ennesima volta che lo sport non vuole cambiare e dando una delle tante botte definitive allo spirito di competizione: gli atleti russi torneranno a gareggiare come se niente fosse, a ogni loro medaglia ci saranno (verosimilmente) sospetti, ma nessuno interverrà. Nel Gattopardo si diceva che ”se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, ma qui si è scelto direttamente di non cambiare nulla e far perdere totalmente la credibilità nel sistema antidoping mondiale. Un sistema che dovrebbe punire i rei, e invece finisce col tirarsi indietro alla minima difficoltà, mostrando tutte le sue lacune: perchè d’altronde, quando si finisce con l’autoregolamentarsi, il rischio è quello di non decidere affatto, come sta capitando sul doping russo…

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Marco Corradi
31 anni, un tesserino da pubblicista e una laurea specialistica in Lettere Moderne. Il calcio è la mia malattia, gli altri sport una passione che ho deciso di coltivare diventando uno degli Azzurri di Gloria. Collaboro con AlaNews e l'Interista

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