Cinquantuno trofei in carriera, tredici medaglie alle Olimpiadi: non solo è il più premiato schermidore della storia, Edoardo Mangiarotti è l’azzurro più medagliato nella storia dei Giochi olimpici.

Edoardo Mangiarotti (fonte: WikiCommons)

L’inizio di una leggenda

Milano. Inizio del XX secolo. Un ventenne dell’Oltrepò Pavese, venditore di automobili con la passione per il culturismo, sta animatamente discutendo in un locale con un giornalista sportivo, ex campione italiano di fioretto, Olderico Rizzotti. Quest’ultimo, in particolare, è fermamente intenzionato a dimostrare il contrario di quanto sostiene il ragazzo, ovvero che la nobile arte della scherma è questione di riflessi e agilità, non di forza fisica, come ritiene il sollevatore di pesi, in passato già dedito ad altri sport, quali alpinismo e ginnastica, tennis e canottaggio. Offeso, Rizzotti decide di sfidare a duello tale Giuseppe. Ad assistere alla lite, vuole il caso, nel locale c’è un siciliano, Enrico Lancia di Brolo, maestro di scherma, che si offre di preparare il giovane al duello.

Rizzotti concederà all’avversario un iniziale vantaggio, ma al termine della sfida dovrà inchinarsi dinnanzi a Giuseppe Mangiarotti.

Di padre in figlio: la nascita d’una dinastia

Appassionatosi alla disciplina, Mangiarotti intraprende a ventiquattro anni la carriera agonistica, dominando le primissime edizioni dei campionati italiani di spada, dal 1906 al 1908, vincendo in quest’ultimo anno anche nel fioretto. Eccelso praticante, impegnato alle Olimpiadi di Londra del 1908, diviene presto profondo studioso della disciplina. Tant’è, Giuseppe Mangiarotti non sarà un semplice maestro, diventerà un rivoluzionario. Sulla scorta della scuola francese, che sublima alla propria esperienza da sportivo, e alle conoscenze del contesto italiano, concorre a trasformare radicalmente la scherma, che da “arte del duello“ diviene sport a tutti gli effetti: il tiro da statico e accademico inizia fondarsi su velocità e atletismo, da coniugarsi a grandi conoscenze tecniche, nel tentativo non più di stoccare l’avversario senza colpo ferire, ma di toccare per primi.

Complessivamente, la sua scuola collezionerà ventinove titoli olimpici, quarantatré campionati del mondo e ventinove campionati italiani. Predicherà scherma, personalmente e attraverso testi redatti in più lingue, dall’Ungheria all’Unione Sovietica; inoltre, contestualmente, farà riscoprire la spada, fino a quel momento o sconosciuta oppure trascurata. E alla Sala d’armi della Società del Giardino di Milano, Giuseppe allenerà i suoi tre figli: Dario, primogenito nato nel 1915 da Alessandrina Oggionni, che crebbe con la futura signora Mangiarotti, Rosetta Pirola di Renate; Edoardo Carlo Giovanni, nato nel 1919; e Mario, classe 1920.

Formati personalmente dal padre con ferra disciplina e pervicace cura dell’atletismo fin dalla tenera età, i bimbi vengono dapprima introdotti a nuoto e marcia, ciclismo e boxe, propedeutici al fine ultimo, l’apprendimento della scherma, sport adorato dal padre che, con garbo ma decisione, tramanda ai pargoli. I tre vengono istruiti in modo differente: Dario nella spada, Edoardo nel fioretto e nella spada e Mario in tutte e tre le armi; del primo e dell’ultimo valorizza le inclinazioni naturali, mentre imposta Edoardo da mancino, come il tanto ammirato Lucien Gaudin, con il quale, per altro, si diletta in tour di esibizione, forma per l’epoca assai innovativa di marketing, dove insieme alla moglie Rosetta dà spettacolo.

Una foto della famiglia Mangiarotti (fonte: WikiCommons)

Dario, anzi Edoardo: il diciassettenne enfant prodige

I successi della dinastia Mangiarotti proseguono, dopo Giuseppe, inizialmente con Dario, che in seguito ad alcune importanti affermazioni entra nel 1934 nel giro della Nazionale. Edoardo, di qualche anno più giovane, resta in scia. È così anche nel 1936, ai Campionati italiani, ultima kermesse prima dei Giochi olimpici di Berlino: Dario conquista il primo titolo nazionale in carriera, nell’arma che trent’anni prima dominò il padre. Alle sue spalle Dino Rastelli e il fratello Edoardo.

I due fratelli Mangiarotti, non potrebbe essere altrimenti, vengono notati da Nedo Nadi, sei volte campione olimpionico tra Stoccolma 1912 e Anversa 1920, che si sta occupando di ricostruire la Nazionale in tutte e tre le armi. Partecipano, dunque, al ritiro preolimpico di Partenopetri, nel Pistoiese, sotto la supervisione del padre Giuseppe, che è referente magistrale della spada. A Nadi, però, spetta l’ultima parola per le convocazioni. E decide, per la spada vanno a Berlino: Saverio Ragno, che nelle ultime quattro edizioni dei Campionati italiani ha vinto tre titoli; Giancarlo Corneggia-Medici, oro a Los Angeles 1932; Giancarlo Brusati, tre titoli nazionali, due medaglie olimpiche e cinque mondiali in carriera; Alfredo Pezzana, trionfante schermidore di grande esperienza; e poi, a sorpresa, Edoardo Mangiarotti. Non, dunque, il fratello Dario, campione italiano in carica, ma suo fratello minore, appena diciassettenne: Nadi, infatti, ritiene quest’ultimo più promettente, ma garantisce un posto a Dario alle prossime Olimpiadi. Che però non si terranno a Tokyo, nel 1940, ma a Londra, dodici anni dopo.

Edoardo in quel momento è promettente schermidore, ma è anche studente, all’Istituto industriale per radiotecnici: competerà nella sua prima Olimpiade, minorenne, con in una mano, rigorosamente la sinistra, la spada, e nell’altra una cornetta telefonica, perché, pur teoricamente esonerato, la sua insegnante Maria Rosa Bonfà lo interroga ogni sera, dopo avergli dato i compiti.

A Berlino 1936 per l’Italia della scherma è un trionfo: nove medaglie totali su quindici in palio, compresi quattro titoli olimpici (gli altri tre vanno all’Ungheria). Ma è nella spada, in particolare, che la Nazionale si distingue, perché vince tutti i metalli in palio: Riccardi l’oro, Ragno l’argento e Corneggia-Medici il bronzo, in campo individuale; e il sestetto, ovviamente, si aggiudica il titolo nella gara a squadre. Edoardo, che prende parte solo a quest’ultima gara, non va bene, è semplicemente invincibile: non perde nessuno degli assalti in cui viene impiegato e subisce solo tre stoccate in tutta l’Olimpiade

Per la scuola Mangiarotti, tant’è, i Giochi sono un successo non solo per la vittoria: la spada elettrica, che a Berlino fa il suo debutto, è stata anche collaudato alla Giardini di Milano (dove, per altro, l’ingegnere Sergio Carmina, che lì si allenava, nel 1953 perfezionerà una sua invenzione, il fioretto elettronico).

La guerra e il ritorno alla competizione

Le tensioni internazionali che le Olimpiadi celano, contemporaneamente rivelandole, esplodono definitivamente. Nel 1939 Edoardo viene dunque arruolato nell’esercito, come ufficiale di complemento, e viene incluso nel settimo reggimento fanteria Cuneo, di stanza Milano. Durante la guerra stanzia nei pressi di Varese, al confine con la Svizzera, per la sesta compagnia mortai. Dopo l’8 settembre, la sua compagnia, di cui è istruttore di reparto, non si unisce né alla Repubblica di Salò né al governo Badoglio: una notte di marzo, con la collaborazione di Don Carlo Valaperta, sabotano le proprie armi e i mortai e valicano il confine. Al loro seguito, aiutate a fuggire dal parroco, settanta famiglie ebree. Rimarranno in un campo per rifugiati militari nel Canton Berna fino alla fine del conflitto, dove, dopo aver parlato con il responsabile del CIO elvetico, che immediatamente lo riconosce, Edoardo ricomincerà a tirare di scherma.

Le attività sportive, sospese dalle atrocità belliche, riprendono lentamente. Ad imporsi ai Campionati italiani del 1946 fu Dario Mangiarotti (mai arruolato, esentato per restare a Roma ad allenarsi, poi divenuto partigiano), al quarto successo dopo quelli tra il ’38 e il ’40; mentre Edoardo vince la coppa Fitting, il più importante trofeo internazionale elvetico. Nel medesimo anno, in vista delle Olimpiadi, riprendono anche i Campionati internazionali: a Lisbona 1946 Edoardo conquista, al debutto, il bronzo individuale nel fioretto, dietro al transalpino Christian d’Oriola e al connazionale Manlio Di Rosa, firmando il quarto posto, primo tra gli italiani, nella spada individuale, nella cui gara a squadre fu terzo. L’anno successivo vince, quindi, il suo primo Campionato italiano, nella spada, e le Universiadi di Parigi, nel fioretto. Dopo un preolimpico da protagonista, si presenta ai Giochi di Londra del 1948, per la prima volta, nelle due armi.

In Inghilterra il clima olimpico nei confronti dell’Italia è, così lo descriverà Mangiarotti, “ostile”. I Giochi, più che un momento di riconciliazione, sono infatti vissuti dai vincitori come un’ulteriore rivalsa (ancorché Edoardo dichiarerà sempre che se avesse saputo, lui e l’intera squadra azzurra, cosa sarebbe successo, in nome dello spirito olimpico, e non solo, a Berlino non si sarebbe presentato). Addirittura, l’Italia viene privata dell’oro nella gara a squadre del fioretto maschile, da una giuria composta da soli giudici inglesi, che anni dopo si scuseranno personalmente con gli schermidori italiani. Edoardo Mangiarotti, ad ogni modo, conclude con due argenti di squadra, in entrambe le armi, firmando il bronzo anche nell’individuale della spada, gara vinta dall’azzurro Luigi Cantone. Il quale, per altro, vi partecipa poiché costringe il Presidente della Federazione italiana, Giuseppe Mazzini, prendendolo letteralmente per la giacchetta, a rivedere i partecipanti: si opta per il lancio della moneta e, ancora una volta, a rimetterci è Dario. 

Un primo piano di Edoardo Mangiarotti (fonte: WikiCommons)

Helsinki 1952: un affare di famiglia

Ai Mondiali del 1949 l’Italia ottiene il miglior risultato nella propria storia: FederScherma conquista ben undici medaglie, cinque d’oro, due d’argento e quattro di bronzo. Protagonista assoluto è Dario, al primo titolo individuale della carriera, firmando in squadra con il fratello anche l’oro nella gara a squadre. Edoardo lascia Il Cairo con quattro medaglie, vincendo anche la competizione a squadre del fioretto e salendo sul podio, tutto azzurro con l’eccezione del solito d’Ariola, sul gradino più basso, anche nell’individuale. L’en plan della sciabola completa la festa dell’Italia.

Il quadriennio tra Londra 1948 ed Helsinki 1952, tant’è, è quello della consacrazione dei Mangiarotti: Dario è, vittorie alla mano, il migliore spadista sul pianeta; mentre Edoardo, tra il 1948 e il 1950, vince tre Challenge Monal di Parigi consecutivi (trofeo di spada che diventerà il più importante del circuito) e, tra il 1950 e 1952, due campionati italiani, uno nella spada, il ’50, e il primo nel fioretto, nel ’52. E nel 1951, ai Mondiali di Stoccolma, che segnano la fine delle qualificazioni olimpiche, conquista tre argenti, nell’individuale del fioretto e nelle gare a squadra di fioretto e spada, laureandosi campione del mondo in quest’ultima. In particolare, Edoardo riesce a sbaragliare non solo la concorrenza, ma anche un infortunio: non potendo tirare con la sinistra, infatti, grazie agli insegnamenti paterni, vince il suo primo titolo iridato con la mano destra.

I XV Giochi olimpici sono un’autentica vetrina per la scherma italiana, che conquista otto medaglie, di cui tre d’oro: una con la fiorettista Irene Camber, prima medaglia di un’azzurra nella scherma olimpica (in quella che allora era l’unica arma del programma nel contesto femminile) e due con Edoardo. Che oltre a due argenti nel fioretto, individuali e di squadra, vince i due titoli della spada, salendo sul podio con il fratello Dario: insieme nella gara a squadre, così nell’individuale. Qui, in particolare, Edoardo, che ha già terminato la fase finale, all’epoca a nove, attende il risultato dei due ultimi assalti di Dario: se questi li vince entrambi, conquista l’argento, regalando al fratello il titolo. E il maggiore dei Mangiarotti vince sia il primo, all’ultima stoccata, che il secondo assalto. È doppietta.

La vittoria, insieme a quella del ’36, che Edoardo considererà sempre la più bella della sua carriera: dedicata al loro papà.

Al termine della premiazione, ricevere una telefonata da Gianni Brera, in quel momento co-direttore della Gazzetta dello sport, che lo prende a mal parole per non aver ancora finito l’articolo; al tempo, infatti, Edoardo collaborava come redattore per il quotidiano in rosa, ma generalmente si dilungava nella redazione dei pezzi, in quanto ad andare sul podio, spesso, era lui. Così, dopo l’ennesima lavata di capo per il ritardo, Brera gli chiede: “Allora pelandrone, chi ha vinto?”. “Io ho fatto primo e mio fratello secondo”. Brera, bonariamente, lo manda al diavolo; ma comprende: l’articolo finirà in prima pagina.

Alfiere della scherma italiana e portabandiera

Definitivamente nell’Olimpo della scherma, Edoardo torna in Italia per riabbracciare la moglie Camilla Castiglioni, sposata due anni prima, e la figlia Carola, nata da pochi mesi e destinata anch’ella alla scherma, formata dal nonno Giovanni, che ovviamente la imposta da mancina. Profeta in patria, spesso la sua grandezza viene più considerata all’estero, in cinque continenti. In particolare, tra il ’55 e il ’70, almeno una volta all’anno, si reca in Unione Sovietica, per formare le nuove generazioni: lo chiamano “Gasputin”. E in un’occasione lo retribuiscono con otto chili di caviale.

Proprio nel 1955 vince contemporaneamente i Campionati italiani di fioretto e quelli di sciabola, entrambi per la terza volta, conquistando contestualmente, tra Bruxelles 1953, Lussemburgo 1954 e Roma 1955, sei titoli del mondo e tre argenti tra gare individuali e a squadre, tra fioretto e spada.

Le Olimpiadi di Melbourne 1956 sono le prime da portabandiera e, ancora una volta, Edoardo è protagonista in entrambe le armi, ponendo la propria firma su tre delle sette medaglie della scherma azzurra. La prima è quella del metallo più prezioso, nel fioretto a squadre, inseguita dalla Nazionale da quel fatidico ’48. Stremato, il giorno dopo non oltrepassa le qualificazioni dell’individuale. Si rifà però nella spada, dove mette in bacheca l’ennesimo titolo a squadre ed un bronzo nell’individuale, in un podio completato da Carlo Pavesi e Giuseppe Delfino.

Roma 1960: il saluto del re

Conclusa la terza Olimpiade, Edoardo si impone nel 1957 nel fioretto, mettendo in bacheca il settimo titolo di campione italiano. A Philadelphia 1958 tocca quota ventisei medaglie iridate, imponendosi con la squadra della spada e salendo sul secondo gradino del podio nell’individuare, contribuendo anche al bronzo del fioretto azzurro. 

Nel 1959, con le Olimpiadi di Roma alle porte, viene chiamato forse al compito più arduo: traghettare la scherma italiana ai Giochi di casa. In quell’anno, infatti, il Presidente Nino Bertolaia si dimette; commissariata la Federazione, il Presidente del CONI Giulio Onesti lo nomina, con i campioni Renzo Nostini e Gastone Darè, temporaneo reggente. Tra le difficoltà nel far ripartire la scherma nostrana, proponendo un progetto molto ambizioso, e le polemiche, non poche, per la sua partecipazione a Roma 1960 nelle vesti di atleta e dirigente, nella Città eterna Mangiarotti onora un intero Paese con classe e talento. 

Ultra quarantenne, per la seconda volta portabandiera, Edoardo Mangiarotti chiude la propria carriera in pedana con un argento nel fioretto ed un oro nella spada, nelle due gare a squadra in cui partecipa. Il saluto del re, nella capitale del suo impero.

Carlo Pavesi, Giuseppe Delfino, Alberto Pellegrino ed Edoardo Mangiarotti: la spada azzurra sul tetto del mondo a Roma 1960 (fonte: WikiCommons)

“Ricordati che sei il rappresentante più nobile di tutti gli sport“

Cinquantuno trofei totali in tutte le competizioni cui prese parte. Sette titoli italiani; ventisei medaglie mondiali, di cui l’esatta metà del metallo più pregiato; tredici allori olimpici, sei ori: Edoardo Mangiarotti è tuttora l’atleta italiano più medagliato alle Olimpiadi, il quinto di sempre insieme ai ginnasti Boris Šachlin e Takashi Ono e al biatleta Ole Einar Bjørndalen.

Lasciate le pedane, continuò a vivere, accanto alla compagna di una vita Camilla, per oltre metà secolo di quello sport che tanto amava: sapiente dirigente, partecipò, oltre alle quattro in pedana, ad un totale di diciassette Olimpiadi, fino a Pechino 2008. Galante in pedana, così fuori: quando nel 1964 il CONI lo premiò con la qualifica di “campione eccelso”, Aldo Nadi, fratello del compianto campione Nedo, dopo innumerevoli proteste, lo sfidò ad un duello alla pistola in un’isola delle Antille; a Ciro Verratti, che lo informò, diede la propria risposta: “Edoardo Mangiarotti non ha mai praticato il tiro al piccione”.

Per i propri successi non pianse mai, in quegli anni si commosse solo per le tragedie davvero importanti, quelle della sua vita e della sua famiglia, in primis la scomparsa della moglie di Dario, nell’alluvione del 4 settembre 1948. Ma, abbandonate le pedane, non riuscì mai a rimanere impassibile di fronte ad una premiazione, ben sapendo quali sacrifici si celano dietro la gioia di un podio. 

Si è spento nel 2012, a novantatré anni, il 25 maggio, giorno in cui “Bebe” Ruth, il più grande giocatore di baseball di tutti i tempi, fece nel ’35 il suo ultimo fuoricampo. La sua fu una carriera, e una vita, da gentiluomo, in pedana e fuori. “Rispettate per essere rispettati” gli insegnò suo padre; così fece, per scherma e avversari, persone amate e sport tutto, sin da quando prese un sacco di botte dai guantoni cuciti da mamma, per lui e i fratelli, passando per i successi, fino al congedo del fiorettista Christian d’Oriola, unico atleta che Edoardo non riuscì mai battere, transalpino che fortissimamente lo volle nella sua gara di commiato. 

Edoardo Mangiarotti, il “Re di spade”, ha incarnato per quasi un secolo non solo lo sport italiano, ma lo spirito d’un tempo, onorando al meglio, in particolare, il primo punto del decalogo dello schermidore, da lui stesso redatto: “Ricordati che sei il rappresentante più nobile di tutti gli sport“. E, tra questi, lui fu il più vincente.

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Niki Figus
Giornalista pubblicista. Naufrago del mare che sta tra il dire e il fare. Un libro, punk-rock, wrestling, carta e penna.

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